Cosa è la qualità?
Come si determina?
Cosa la determina?
Uno degli esempi più semplici per capirlo è il Sistema Latte.
Quanto ne sapete?
Ecco un approfondimento che può essere applicato a tutte le categorie merceologiche
Il prezzo delle materie prime è tutto uguale ma non lo è il livello qualitativo. Una proposta per un prezzo al livello di ciascuna.
La gastronomia italiana e i prodotti dell’agroindustria hanno ampia risonanza nel mondo eppure, ad una lettura attenta, la situazione appare più complessa di quella che ci viene rappresentata. I nostri prodotti famosi, pane, pasta, olio, formaggi, salumi, devono il loro livello qualitativo alla materia prima, -non a caso chiamiamo sempre in causa il terroir-, ma, purtroppo, il prezzo di ciascuna di esse viene deciso dalla borsa merci ed è lo stesso in tutto il mondo. Il grano lucano è costretto a temere la concorrenza del grano canadese, piuttosto che di quello dell’Arizona o della Turchia. Ma il grano è tutto uguale? Certo che no, anche perché, se così fosse, verrebbe meno il tanto decantato legame con il territorio. E la qualità? Se ne parla spesso ma, in tutti i settori, per qualità si intende quella tecnologica, si tiene conto di parametri che possono influenzare il processo produttivo e non il flavour o il valore nutrizionale del cibo. Nel grano si tiene conto della proteina, nel latte di grasso e proteina, nella carne della resa. In questo modo, quasi nessun produttore riceve un prezzo che si avvicini al livello qualitativo della propria materia prima. Non solo, ma l’industria di trasformazione non ha strumenti per diversificare il prodotto sulla base della qualità. Non a caso le paste sono trafilate in bronzo oppure no, il pane è fatto con lievito madre oppure no, il formaggio è a latte crudo, ecc. Si parla solo di tecnica. In questi ultimi anni, tutti si sono riversati sulle varietà o sulle razze, ma il problema rimane: perché una varietà o una razza dovrebbero dare un latte o un grano migliore? E veniamo al problema centrale. Il mondo della ricerca ha accompagnato senza riserve l’industria in questo percorso di omogeneizzazione e standardizzazione del prodotto, tralasciando le ripercussioni sul flavour. Non a caso, oggi domina l’insapore. Ma, soprattutto, avendo trascurato lo studio dei flavour e dei fattori che ne determinano il livello, noi adesso non solo non abbiamo le idee chiare sul gusto e sui parametri per poterlo misurare, ma non conosciamo come si determina il livello qualitativo di un prodotto. 1 Tutto è casuale, perché della materia prima ci interessa la proteina, che non ha alcuna relazione con il flavour. Quindi, l’effetto più evidente è che noi, non avendo chiavi di lettura del livello qualitativo, non conosciamo il valore delle nostre materie prime. E questo, per la verità, vale per tutti e dappertutto. Però, nel caso della Basilicata, molto probabilmente abbiamo livelli medi molto alti, grazie al clima e alla topografia del territorio, oltre al sistema di produzione che non è molto intensivo. Ma che strumenti conoscitivi abbiamo per poterne misurare il livello? Se si fa eccezione per il mondo del vino, oggi la ricerca ha approfondito molto gli studi sull’aroma e, in parte, sul colore; mentre molte lacune rimangono sul gusto. E, comunque, si sa poco sui fattori che determinano il contenuto delle molecole responsabili del flavour. Ma la situazione non è la stessa nei vari settori. Sul latte e sulla carne ormai sappiamo che il flavour e il valore nutrizionale sono influenzati dall’alimentazione degli animali, anche se non si conoscono le molecole responsabili del gusto. Nei vegetali, la situazione è stazionaria perché tutti ormai studiano le varietà, nessuno o pochi si occupano della relazione fra resa e livello qualitativo. Però le regole della natura sono le stesse per tutti e se per fare un buon vino occorre prima di tutto puntare su una resa bassa, non si vede perché non debba essere così anche per tutte le altre materie prime. E, comunque, l’esperienza insegna che quando ci sono basse rese la qualità aumenta, perché aumenta la concentrazione delle molecole.
IL MODELLO DELLE CLASSI DI QUALITÀ
Quindi, l’ipotesi che il flavour dei prodotti di origine animale dipenda dall’alimentazione e che quelli di origine vegetale dipenda dalle rese per ettaro e che, a sua volta, il flavour dipenda dal contenuto di carotenoidi, volatili e polifenoli è plausibile, anche se alcune cose vanno dimostrate. Ma stiamo parlando di molecole complesse e di analisi costose e lunghe. Come fa l’industria che volesse approvvigionarsi di grano di alto livello qualitativo a decidere il prezzo a cui va pagato e anche il modo come misurarlo? E lo stesso vale per il consumatore. Chi gli garantisce che quello che scrive l’azienda è corretto e veritiero? Visto che la strada delle analisi chimiche non è praticabile, perché i costi sarebbero troppo alti e non sempre a portata di mano, allora bisogna puntare su un metodo di pagamento e di certificazione basato sulle classi di qualità. R. Rubino, responsabile scientifico del progetto, già da qualche anno ha messo a punto, per il latte, sei classi di qualità basate sull’alimentazione e soprattutto sul rapporto foraggio/concentrati. Il modello funziona e il Latte Nobile®, che è l’espressione di una classe, è già una realtà. L’importante è che le classi vengano fatte in modo che il consumatore possa riconoscerne le differenze nel momento in cui decida di passare da una classe all’altra. Oggi, nel caso dei formaggi, dalla semplice degustazione si può risalire alle classi e viceversa. Nel caso dei vegetali si sa poco e obiettivo di questa ricerca è proprio quello di studiare la relazione fra classi e livello qualitativo basato sul flavour di pasta e pane. Certo, la resa non è tutto, ma è un primo significativo passo.
Un modello efficace e testato è quello del latte e dei formaggi
Le motivazioni
La crisi della vacca da latte (e della bufala) si va facendo sempre più drammatica. I magazzini di stagionatura dei formaggi sono strapieni, nonostante l’autocontrollo della produzione, i prezzi sono in continua discesa ma, soprattutto, all’orizzonte non s’intravvede alcune proposta concreta che possa portare il settore fuori dalle secche e lontano dalla chiusura delle aziende. La colpa viene sempre attribuita ai politici, le richieste riguardano solo finanziamenti a sostegno, nessuno che incominci dal proprio orticello a cambiare metodo e modello.
Perché questa crisi? Da decenni ci dicono che la nostra zootecnia sconta un handicap di partenza dovuto alle dimensioni aziendali e, quindi, a costi di produzione più alti di quelli degli altri paesi europei. Se così fosse, nell’ultimo ventennio, che ha visto la chiusura dell’ottanta per cento delle aziende, la crisi avrebbe colpito soprattutto le aziende italiane e poco o affatto quelle di altre aree comunitarie. Invece gli scioperi di questi giorni hanno interessato tutti i paesi dell’Unione, sia quelli mediterranei, e sia quelli dell’Est, dove il prezzo del latte, e il relativo costo, è quasi metà di quello italiano. E poi potremmo capire la crisi in un paese dove c’è eccedenza di produzione di latte, come la Francia, l’Olanda, la Germania, ma in Italia produciamo poco più del settanta per cento del fabbisogno. Dovremmo vivere sonni tranquilli. Invece così non è, e allora dobbiamo concludere che l’analisi è sbagliata e che, quindi, se vogliamo uscirne dobbiamo rivedere l’analisi, la lettura del settore.
Non è difficile individuare la causa della crisi internazionale perché, la produzione di latte, nonostante le quote presenti in molti paesi, aumenta ogni anno più dell’aumento dei consumi. E poiché sappiamo che la domanda di cibo è anelastica, sia rispetto al prezzo che al reddito, il suo consumo è strettamente legato alle esigenze nutritive quotidiane – in pratica possiamo comprare e tenere tre autovetture, quattro televisori, e così via, non mangiare più del giusto- allora questo eccesso di produzione provoca naturalmente delle oscillazioni di prezzo, soprattutto nei periodi favorevoli alla produzione. Solo quando ci sono fenomeni naturali sfavorevoli come siccità o alluvioni nei paesi a forte produzione lattiera i prezzi salgono. Ma dobbiamo sempre contare sulle disgrazie degli altri?
Gli effetti delle condizioni climatiche vengono esaltati dal fatto che il latte è considerato una commodity. C’è il prezzo mondiale, poi quello europeo, poi quello nazionale e, infine, quello regionale. E’ un po’ quello che succede nel mondo della cerealicoltura e del petrolio. Quando la produzione aumenta, il prezzo diminuisce. Solo che nel caso del petrolio, sono i paesi produttori a subirne le conseguenze e per alcuni di questi, perché poveri, gli effetti possono essere devastanti.
Nel caso del grano i paesi che possono produrre forti quantità a costi più bassi aumentano la produzione, quelli invece che, strutturalmente, hanno costi più elevati, vedi l’Italia, vanno riducendo sempre più le superfici coltivate. In entrambi casi non ci sono proteste, gli automobilisti gioiscono del ribasso del prezzo della benzina, i produttori di grano smettono di coltivare grano e passano a un’altra coltivazione.
Quindi, il fenomeno è chiaro e gli effetti sono evidenti e attendibili. Se questi prodotti vengono considerati una commodity, quando la produzione aumenta i prezzi scendono e le aziende chiudono. Allora o abbassiamo le produzioni, come spesso fa l’OPEC, oppure usciamo dalla logica della commodity, abbandoniamo quella che sembra un’ancora di salvezza ma che invece è la causa della nostra morte, il prezzo unico, e andiamo verso una differenziazione dei prezzi, e chiaramente della qualità.
C’è un altro motivo per cui dobbiamo abbandonare il prezzo unico e concordato del latte. Dato per scontato che il latte non è tutto uguale, se noi invece diamo a tutti lo stesso riconoscimento, va da sé che chi offre qualità elevata, riceve un prezzo più basso e chi invece si mantiene su livelli minimali riceve un incentivo a continuare su quella strada. Ed è quello che è successo nel settore caseario. Prendiamo il caso della ricotta. Oggi la gran parte delle aziende aggiunge panna perché altrimenti questo formaggio sarebbe immangiabile. La qualità è scesa talmente di livello che un formaggio delicato e spettacolare come la ricotta o si fa con un buon latte oppure bisogna ricorre alle alchimie. Lo stesso dicasi per il burro. Certo, si potrebbe dire che negli ultimi due decenni si è parlato molto di qualità, che c’è persino una legge ad hoc (la 169/89), che c’è un premio in relazione al grasso, alle proteine, alla carica batterica e alle cellule somatiche. Quando c’è!
Ma grasso e proteine sono parametri quantitativi, servono a produrre più formaggio non un formaggio migliore. Alcuni sostengono che le caseine, o le sue frazioni, modificano la struttura e quindi la qualità, ma sono disquisizioni da azzeccagarbugli. I burri sono diversi, e molto, nonostante che la percentuale di grasso sia sempre la stessa, e la struttura dei formaggi può avere un’influenza sulla qualità solo in negativo, solo se è un difetto. La qualità è profumi, aromi, sapori e valori nutrizionali che niente hanno a che fare con grasso e proteine. O la relazione è talmente modesta che si può trascurare.
In merito a carica batterica e cellule somatiche, sono parametrati igienici che, anche in questo caso, non hanno alcuna incidenza sulla qualità. Anzi, oggi il mondo della caseificazione ha molti problemi di coagulazione perché la carica batterica è molto bassa, il latte è praticamente morto. Quanti formaggi a latte crudo necessitano dell’uso dei fermenti altrimenti la coagulazione avviene con difficoltà?
A tutto questo si devono aggiungere gli effetti collaterali, quelli culturali, sui consumi, sui consumatori, sulla ricerca. Il paradigma di questa metamorfosi lo trovo nel Ragusano. Un formaggio di grande livello, prodotto con animali al pascolo, vacche Modicane autoctone, a latte crudo, riscaldato nelle tine di legno, maturazione lenta e senza fermenti, stagionatura in grotta, eppure il latte destinato a questo formaggio viene pagato solo due centesimi in più del latte industriale e il prezzo finale è di poco superiore a un banale formaggio. Il Ragusano e tutti i formaggi che hanno la sua stessa storia valgono dieci volte di più. Perché non esistono formaggi prestigiosi a prezzi alti? E’ possibile che chi compri una bottiglia di Champagne, spendendo cifre alte, non possa avere il piacere di pagare e di gustare un formaggio di pari livello?
Quindi, occorre uscire dalla logica del prezzo unico, occorre dare “a ciascuno il suo” prezzo, occorre dare prestigio e nobiltà a chi si sforza di cogliere il meglio e sfruttare al massimo le specificità di un territorio, occorre allargare la forbice fra il formaggio che costa poco e quello più costoso. Come? Differenziando il prodotto, sottraendolo alla logica concorrenziale e mettendo in condizione il consumatore di riconoscere che non si tratta di un prodotto omogeneo, standardizzato. Ciò consentirebbe di collocarlo in un mercato di concorrenza monopolistica, dando perciò, del potere contrattuale agli allevatori.
Certo, l’ideale sarebbe emulare quello che fanno i produttori di vino: ogni bottiglia ha il suo prezzo, ogni azienda non produce un solo tipo di vino. E il prezzo non è legato alla tipologia, al marchio comunitario. Si può comprare una bottiglia di Barolo con 10 euro ma anche con 200. Invece nel settore caseario le DOP sono diventare il problema, non la soluzione. Tutti i formaggi sono uguali e quindi i prezzi devono essere simili, al massimo diversi per stagionatura. Ci siamo rifugiati nella sola” stagionatura”, visto che non potevamo parlare d’altro.
Non possiamo, nell’immediato, svincolare il prezzo dalla tipologia casearia, ma possiamo almeno incominciare a differenziare i prezzi in base alla qualità del latte che esiste e che, ormai, sappiamo misurare.
La proposta delle Classi di qualità nasce da queste considerazioni e prende anche atto che, in fondo, alcune classi già esistono. Senza però che ce ne accorgessimo e senza averle portare a regola, a modello. In sostanza, è impensabile competere dal lato dei costi in un mercato globalizzato dove il latte è ritenuto un prodotto uniforme sia se proviene dai pascoli lucani che dalle pianure francesi. Occorre, invece, trasmettere al consumatore il messaggio che si tratta di latte diverso, non assimilabile a una commodity.
La qualità e i fattori che la determinano
La qualità del formaggio dipende, soprattutto, dall’alimentazione dell’animale, segue in posizione abbastanza distanziata la tecnica di produzione, e, infine, la stagionatura.
Il latte
La qualità del latte dipende dall’alimentazione, che incide sui valori nutrizionali e aromatici ed anche sul livello produttivo dell’animale. Oggi sappiamo che le molecole aromatiche e quelle che hanno valore nutrizionale, che ritroviamo o possiamo ritrovare nel latte, dipendono quasi esclusivamente dalle erbe che gli animali mangiano. Ogni erba apporta un contributo diverso di terpeni, polifenoli, flavonoidi, alcoli, chetoni, omega3, omega 6. vitamine antiossidanti. Quindi più erba mangia l’animale e, soprattutto, più erbe sono contenute nella razione, e più il latte presenta una complessità aromatica e nutrizionale importante.
In Italia e nel mondo, due sono i sistemi di alimentazione che pesano e determinano la qualità: quello stallino e quello al pascolo. Lo stesso animale produce un latte molto diverso a seconda se va in alpeggio, o sui pascoli aziendali, o se è alla stalla e si nutre piuttosto che con l’erba fresca, con la stessa erba ma affienata. Il taglio, il sole, il vento accelerano la volatilità di molte molecole aromatiche e di quelle termosensibili.
Ma, all’interno dei due sistemi, l’alimentazione non è mai uguale.
Sistema stallino
In questo sistema possiamo individuare almeno tre livelli diversi che possono determinare differenze sensibili e percepibili nel latte:
Silo-mais e concentrati, il cui rapporto è intorno a 40/60. E’ chiaro che più aumenta la quota dei concentrati e più si abbassa la qualità del latte. Dai molti studi effettuati è ormai evidente che i concentrati hanno lo stesso effetto dell’acqua nel vino: ne aumentano il volume ma ne diluiscono gli ingredienti. In questo caso la produzione delle vacche oscilla intorno ai 40-50 Kg al giorno.
Fieno e concentrati, il cui rapporto è intorno al 50/50. La sostituzione dell’insilato con il fieno migliora lo stato di salute dell’animale e il contributo alla qualità, però molto dipende dal tipo di fieno. Se ci troviamo di fronte ad un fieno monofita, costituito da una sola erba, il miglioramento c’è comunque ma di lieve portata; se invece ci troviamo di fronte a prati polifiti, allora la differenza può essere sensibile. In questo caso la produzione delle vacche oscilla intorno ai 30 litri al giorno.
Fieni polifiti e alto rapporto foraggi/concentrati. Il caso del Latte Nobile. Nel caso del Latte Nobile il rapporto deve essere 70/30 e i fieni devono contenere almeno 6 essenze diverse. Inoltre la qualità dei fieni deve superare almeno i 60 punti all’analisi sensoriale. In questo caso la produzione giornaliera oscilla sui 20 litri.
Sistema al pascolo
Al pascolo possiamo distinguere tre differenti livelli di qualità in relazione, anche in questo caso, all’uso di concentrati e al tipo di pascolo, se monofita o polifita.
Solo pascolo. Se non vengono utilizzati i concentrati, la qualità dipende esclusivamente dalle erbe. In casi come questo, difficilmente l’allevatore fa pascolare gli animali su un erbaio monofito. In genere le cotiche sono polifite e la qualità è al massimo dell’espressione.
Pascolo polifita e concentrati. In questo caso i concentrati non devono superare il 30% dell’intera razione giornaliera.
Pascolo e concentrati. Quando il pascolo è monofita e i concentrati superano il 30% della razione, la qualità si abbassa ulteriormente.
La tecnica
Alla tecnica si da molta importanza, anzi ormai si valuta un formaggio tenendo solo conto dei parametri influenzati dalla tecnica. Eppure, a parte i difetti, potremmo farne anche a meno perché qualunque casaro è capace di adattare la tecnica alle esigenze dell’utente. Invece vi sono alcuni passaggi che incidono sulla qualità e che sono l’effetto di scelte industriali non modificabili. Ci riferiamo al trattamento termico, all’uso dei fermenti e all’uso dell’acido citrico.
La pastorizzazione, così come la termizzazione, attenuano e banalizzano la componente aromatica e influenzano negativamente anche alcune molecole nutrizionali. In più costringono il casaro a utilizzare i fermenti, o meglio, il fermento.
L’uso di fermenti. Ormai l’uso dei fermenti è diffuso non solo nei formaggi a latte pastorizzato, ma anche in quelli a latte crudo. Però è sbagliato usare la parola al plurale perché di fermenti se ne aggiungono pochi: uno, raramente più di uno. E pensare che ogni caseificio mantiene all’interno della struttura una biodiversità che può sfiorare anche i 150 ceppi diversi di batteri. La scomparsa della microflora lattica, per molti medici e microbiologi è vista come un danno per l’ambiente e per la salute umana, perché vengono in questo modo indebolite le difese immunitarie dell’organismo. Quindi l’uso dei fermenti va penalizzato.
L’uso di acido citrico. Oggi la gran parte delle paste filate sono prodotte con aggiunta di acidificanti, in primis l’acido citrico. Storicamente la pasta filata veniva e viene fatta acidificare, per poter essere filata, naturalmente -è il caso del Fior di Latte di Agerola- oppure con il siero-innesto o con il latto-innesto. In questo caso la pasta fila ha un pH intorno a 5, ha un sapore acidulo ed è ricca di fermenti lattici. Se si usa l’acido citrico, l’acidificazione è immediata, avviene a un pH introno a 5,6. Quindi la mozzarella è dolce, la flora lattica praticamente assente perché non c’è stato il tempo necessario perché si sviluppasse. Ma, soprattutto, a quel pH la pasta non ha difese acide e, per questo, è più sensibile allo Pseudomonas: per intenderci, a diventare blu.
La stagionatura
Oggi il ruolo della stagionatura risente degli effetti della cultura del modello estensivo. Non avendo dato importanza all’alimentazione come fattore determinante la qualità, l’invecchiamento dei formaggi è diventato una variabile indipendente, basta curare bene il formaggio e l’effetto è garantito. E quale sarebbe questo effetto? Su questo punto ognuno dice la propria, non c’è una condivisione su cause/effetto, e non c’è nemmeno condivisione della terminologia da utilizzare per descriverne i cambiamenti, tanto che molti usano aggettivi che dicono poco su quel formaggio.
Nei vini la regola condivisa è che s’invecchiano solo vini prodotti da uve di grande livello. Solo vini ben strutturati e con un corredo terpenico, fenolico e di altre componenti aromatiche può sopportare grandi invecchiamenti migliorando e non peggiorando.
Nel mondo del latte la stagionatura prescinde dalla qualità del latte. Si invecchiano persino formaggi prodotti con il latte di Alta Qualità (per intenderci, quello dei sistemi intensivi), che vengono mantenuti nelle celle frigorifere anche diversi anni(perché la vendita langue) e se ne vantano le caratteristiche organolettiche, caratteristiche però non condivise o non comprese da chi dovrebbe acquistarlo.
C’è comunque chi, partendo da formaggi ben selezionati, si dedica con particolare cura all’affinamento o esaltando le potenzialità di quel formaggio o arrivando addirittura a stravolgerne le caratteristiche fisico-chimiche pervenendo a un formaggio diverso nell’aspetto e nel sapore.
Al momento quindi in Italia la stagionatura è un valore non generalizzabile ma che va tenuto in considerazione di volta in volta, in relazione alla personalità dell’affinatore.
Per questo viene tenuto fuori dalle classi ma rimane all’interno del range di prezzo della classe di appartenenza di quel formaggio.
Tecnica e Fermenti o Acido citrico
Alla Classe del latte si possono aggiungere dei + in relazione alla tecnica di produzione.
Se il formaggio è a latte crudo, per esempio di classe A1, si indicherebbe A1+, se senza fermenti: +. Quindi un formaggio prodotto con animali che hanno mangiato solo erba del pascolo, a latte crudo e senza fermenti avrebbe la classe A1++.
In alcune realtà di montagna, le difficoltà logistiche possono suggerire o obbligare l’uso di fermenti autoctoni, selezionati da strutture specializzate e messi a disposizione degli allevatori. In questo caso, soprattutto se si tratta di un pool di fermenti, si può accettare l’uso di questa tecnica e attribuire un + alla classe del formaggio.
Un formaggio di questo tipo avrebbe il massimo del riconoscimento e può sperare in un prezzo pari al suo valore, perché il consumatore sa che si trova di fronte il testimonial di un modello e di pratiche che meritano rispetto e valore.
Chi decide e chi controlla
Se dovesse funzionare un modello del genere, i primi a beneficiarne sarebbero i produttori di latte, oltre che i caseifici, perché si amplierebbe la forbice del prezzo, si creerebbero nuove fasce di mercato e i prezzi sarebbero più vicini al valore del latte. Naturalmente ne beneficeranno anche i consumatori, perché per la prima volta avrebbero contezza del valore del prodotto e del rapporto qualità/prezzo.
Però entrambi questi soggetti non possono attivare il modello, perché non dispongono degli strumenti giusti. Chi può far scattare immediatamente il meccanismo sono i negozi, meglio le gastronomie e alcuni distributori, soprattutto quelli plurimarche, con un ventaglio importante di varietà casearie.
Tutti o semplicemente alcuni possono autonomamente o insieme decidere di inserire ciascun formaggio all’interno di una classe di qualità. I parametri da utilizzare sono semplici da acquisire e da raccontare ai consumatori. Ormai c’è una vasta bibliografia sul ruolo delle erbe nella formazione degli aromi e del valore nutrizionale. Altra se ne può mettere a disposizione ad hoc.
Chi controlla e soprattutto è necessario controllare? La legge italiana e comunitaria sul commercio dice che sull’etichetta non si deve dichiarare il falso. Ed è ammessa l’autocertificazione. E’ interesse allora del negoziante, a prescindere dalla legge, di acquisire le informazioni giuste per poter sia classificare il formaggio ma anche per avere contezza della qualità e del prezzo che deve pagare.
Quindi, almeno nella fase di avvio, dovrebbe essere lo stesso negoziante o rivenditore a garantire la corrispondenza fra la classe dichiarata e la tecnica di produzione. Sapendo comunque che se è facile per loro controllare, lo sarà altrettanto per i NAS o per i servizi di controllo pubblici.
E le DOP?
In Italia le DOP hanno cercato sempre di stoppare qualsiasi tentativo di differenziazione della qualità. Tutto deve essere uguale nell’ambito del territorio e della produzione. Questa regola potrebbe andare bene per piccole DOP, ma se pensiamo che solo due, Grana Padano e Parmigiano Reggiano, arrivano a produrre quasi il 40% dell’offerta casearia nazionale, allora si capisce bene come questo meccanismo sia stato uno dei problemi del settore e non un punto di forza.
Certo l’ideale sarebbe che le DOP facessero proprio questo modello, ma al momento la debolezza è tale che qualunque seppur piccolo cambiamento spaventa al di là della sua portata. Verrà il momento che i produttori, almeno quelli più virtuosi, si renderanno conto che o si smarcano da questo modello oppure sono condannati.
Perché la qualità dei formaggi non è uguale nell’ambito della DOP. Penso alla Mozzarella di Bufala Campana, a quei formaggi che si producono sia in alpeggio che in stalla, al Taleggio, ai caprini, ecc.
Al momento niente impedisce che il negoziante possa vendere un formaggio in base ad una sua classificazione, visto che la classe del formaggio non viene riportata in etichetta.
Effetti prevedibili e attesi
Attualmente, il consumatore è disorientato di fronte ai messaggi contorti, fasulli, sfacciatamente agiografici che arrivano dal mondo lattiero-caseario. Se tutto è uguale, se la qualità dei formaggi di una DOP è sempre la stessa, allora perché dovrebbe pagare un prezzo più alto? Sceglie sempre quello più basso. Se facciamo passare per latte di Alta Qualità, così definito in base alla legge 169/89, un latte industriale, se a cadenza semestrale blocchiamo le frontiere con i Tir per impedire che arrivino latte e cagliate dall’estero con la scusa che quel latte è più scadente, se insomma non facciamo niente per mettere in condizione il consumatore di accrescere il proprio vocabolario dei termini giusti per definire e cogliere la qualità, non dobbiamo poi lamentarci che i prezzi siano sempre in caduta.
Il metodo della Classi di Qualità permette di eliminare contemporaneamente le cause che concorrono a far abbassare i prezzi: le parole chiavi della qualità e la disinformazione.
Nel momento in cui i rivenditori, dai piccoli ai più grandi, organizzeranno il loro banco frigo o il loro catalogo non per categoria di formaggi: freschi, stagionati, a pasta filata, pressati, o addirittura per marchi DOP, ma per classi di qualità, il primo effetto evidente sarà quello di spingere il consumatore a chiedersi cosa mai possano essere quelle classi, cosa significheranno. Succederà quello che è successo a ciascuno di noi quando sono state attivate le classi di qualità per gli elettrodomestici. Ci siamo documentati e subito abbiamo capito che il consumo di acqua, di elettricità poteva cambiare in funzione del tipo di lavatrice, in funzione quindi della qualità. La percezione della qualità e dei fattori che la determinano fa scattare subito nel consumatore un confronto con il prezzo. Se la qualità è alta, ci si aspetta che il prezzo sia altrettanto alto, altrimenti insorgerebbe quantomeno un sospetto di prodotto in scadenza. Se la classe è bassa, ci si aspetta un prezzo giusto.
Oggi il consumatore vuole disporre di quelle parole chiavi che gli possono permettere di cogliere la qualità, il suo livello, perché vuole essere libero di scegliere. Le classi di qualità non solo forniscono queste chiavi, perché sono state formulate in base a risultati scientifici seri, ma danno il modo anche di percepire la distanza fra le classi, vero grande problema del momento, come abbiamo visto a proposito del Ragusano.
Nel momento in cui ha consapevolezza di questa distanza, non avrà difficoltà ad accettarne la differenza di prezzo. Differenza che, a qual, punto, non sarà di pochi euro, ma proporzionale alla distanza di qualità.
Le piccole produzioni, i grandi formaggi si potranno salvare solo se si apriranno questi nuovi orizzonti. E a beneficiarne saranno anche gli altri formaggi, la massa, perché il mercato sarà meno asfittico, più allargato e probabilmente potranno salire anche i consumi. (Oggi molte persone non bevono latte e non mangiano formaggi perché hanno problemi d’intolleranza. Ma l’intolleranza probabilmente è dovuta allo squilibrio di questi formaggi. Invece i formaggi prodotti da animali meno stressati sono in equilibrio. Ma questa è una storia che riprenderemo in altra sede).
Ecco perché il modello delle classi di qualità è l’unica soluzione al momento disponibile per rilanciare il settore.