I fagioli non sono tutti uguali, a volte sono straordinari, altre volte è meglio buttarli. Perché? Che chiavi di lettura abbiamo per non comprare un prodotto che abbia il livello qualitativo da noi desiderato?
I fagioli, almeno per la mia generazione, sono un po’ le nostre madelaines, ci ricordano l’infanzia e, soprattutto, sapori decisi, odori che riconoscevi da lontano.
I tempi sono cambiati, non c’è più la produzione familiare e il continuo aumento dei consumi ha imposto anche sistemi molto intensivi di coltivazione.
Risultato è che oggi o ne conosci l’origine e il sistema di produzione oppure l’’aroma e il gusto rimangono casuali, hai bisogno almeno di aspettare che l’acqua arrivi ad ebollizione per capire, dall’odore, se vale la pena continuare oppure di risparmiare almeno il gas.
Ultimamente mi è capitata una cosa del genere con una confezione di fagioli comprata al supermercato.
In genere non disdegno di comprare i fagioli neri messicani, in questo caso si trattava della varietà Occhio nero proveniente, se non sbaglio, dal Perù.
Per la prima volta nella mia vita mi sono trovato di fronte un fagiolo anonimo, senza aroma e senza gusto. Tanto che ho buttato tutto, era come mangiare qualcosa di inutile.
Perché, perché ci sono fagioli che non hanno sapore ed altri sì?
Siccome io penso che la complessità aromatica dipenda essenzialmente dal metodo di produzione, verrebbe naturale concludere che quel fagiolo fosse stato prodotto in un sistema molto intensivo.
E la varietà conta, visto che nel mondo ci saranno centinaia di varietà diverse con aromi spesso marcati? E quanto?
Un giorno mi trovo a passare da Erbanito, un’azienda multifunzionale che Peppe Marmo gestisce a San Rufo (Sa) insieme ai figli.
Ero andato per parlare di formaggi e me ne sono uscito con tre confezioni di fagioli. Borlotto basso, Bianco, Verdolino.
Quale migliore occasione, ho pensato, per capire come la varietà influisce sull’aroma, visto che tutti e tre sono stati coltivati nello stesso terreno e in maniera non intensiva?
Come ho scritto più volte, nella degustazione io tengo conto solo dell’aroma e del gusto; del primo valuto l’intensità e la variabilità, del secondo, alle prime due aggiungo la persistenza. E questo perché questi parametri mi permettono di risalire alle molecole che ne sono responsabili e ai fattori che possono averne determinato il contenuto.
Durante la cottura il Borlotto basso e il Bianco hanno liberato una quantità abbastanza importante di saponine, una molecola che è responsabile dell’astringenza, con relativa formazione di abbondante schiuma. Il Verdolino invece non ha praticamente provocato schiuma.
Poi sono passato alla degustazione fatta con scodelle aperte, quindi sapevo quali varietà assaggiavo.
Dopo aver fatto almeno tre ritorni a distanza di un paio d’ore, sono riuscito a definire una scala di valori e uno schema descrittivo per ciascuna delle varietà.
In sintesi, le tre varietà hanno mostrato livelli diversi di aroma e gusto: il Bianco, ha mostrato i valori più bassi, seguito dal Verdolino e a finire il Borlotto.
Una volta codificati, ho voluto vedere se riuscivo a fare il percorso inverso. Ho assaggiato alla cieca, utilizzando come parametri quelli appena descritti. Devo dire che è stato abbastanza facile risalire alle varietà.
Cosa possiamo ricavare da questa degustazione?
Per prima cosa, che il sistema di produzione comunque influisce sul flavour, perché lo stesso Bianco mantiene a livelli più che accettabili l’intensità dell’odore e la persistenza del gusto.
Poi c’è l’effetto varietà. Nel senso che ogni varietà marca in maniera specifica il bouquet, un po’ come succede nei vini, ma questo non si traduce in superiorità ma solo in diversità.
E nei legumi questa specificità è giustificata dal colore, perché come nei vini, il colore è determinato dagli antociani (soprattutto proanthocyanidine), che hanno anche un ruolo nel gusto e nell’’odore. E non a caso nelle tre varietà degustate l’intensità dell’aroma è stata direttamente proporzionale all’intensità del colore.
Ma gli antociani contribuiscono solo in minima parte all’odore e al gusto. Probabilmente è l’insieme dei polifenoli a dare corpo al gusto.
C’è una relazione fra antociani e polifenoli?
Dalla bibliografia che ho consultato, pare proprio di sì. Kleintop e Al, in uno studio fatto su 34 varietà riporta che nei fagioli ad alta intensità di colore (dal verde scuro al nero), i polifenoli totali oscillano da 997 mg/g a 1313, in quelli a media intensità, da 676 a 988, mentre i bianchi si sono mantenuti da 294 a 544.
E la varietà Occhio Nero? In un articolo pubblicato nel 2016 da Giusti e al. viene riportato che il contenuto di polifenoli totali nell’Occhio nero era di 102 mg/g, mentre nel Verdolino di 1129.
Un differenza di dieci volte, anche se dobbiamo tenere presente che importante non è solo il contenuto totale ma anche le singole molecole, che sono tantissime e diverse da una varietà all’altra.
Ma il problema di tutte queste pubblicazioni è che non si conoscono i livelli produttivi di quelle varietà.
E poi, quanto conta l’epoca di raccolta? Al momento sono tutte domande destinate a restare senza risposta nel breve periodo.
Quindi, il mio Occhio nero non aveva sapore non solo perché di suo ha un basso contenuto di polifenoli ma anche e soprattutto perché sarà stato coltivato in maniera intensiva.
Comunque, ora so dove comprare i miei fagioli.
Bibliografia
Federica Giusti, Giovanni Caprioli, Massimo Ricciutelli, Sauro Vittori, Gianni Sagratini, 2016. Determination of fourteen polyphenols in pulses by high performance liquid chromatography-diode array detection (HPLC-DAD) and correlation study with antioxidant activity and colour. Food Chemistry.
Adrienne E. Kleintop , James R. Myers , Dimas Echeverria , Henry J. Thompson , Mark A. Brick, 2016.Total Phenolic Content and Associated Phenotypic Traits in a Diverse Collection of Snap Bean Cultivars.Journal of the American Society for Horticultural Science.