Potremmo avere dei grandi formaggi. Ma i prezzi bassi e un pizzico di ipocondria ci stanno portando verso l’appiattimento e la perdita del legame con il territorio.
Dopo aver degustato e raccontato una quarantina di formaggi del Nord, siamo al resoconto finale.
Eravamo partiti con una domanda che forse era una semplice curiosità: ma tutti i formaggi possono sostenere lunghe stagionature e, a prescindere, perché?
Certo, non pensavamo di risolvere una questione così criptica attraverso la semplice degustazione di qualche decina di formaggi.
Ma da qualche parte dovevamo iniziare e, grazie all’aiuto di Carlo Fiori, ci siamo chiariti le idee sulle dinamiche in atto nel settore delle paste pressate, che è poi la tipologia prevalente nella fascia alpina e prealpina.
Provo a sintetizzare le impressioni e le riflessioni del gruppo di degustazione, anche perché nel mentre cercavamo indizi sugli effetti della stagionatura, altre più importanti questioni ci hanno obbligato ad estrapolare qualche nuova tematica.
La stagionatura. Sappiamo che nel corso della stagionatura avvengono una serie di processi biochimici a carico del grasso e delle proteine ad opera degli enzimi prodotti dai fermenti lattici.
Tutti i testi ci parlano di proteolisi e di lipolisi e si attribuisce ai prodotti della loro degradazione, amminoacidi e acidi grassi, la responsabilità di gran parte della complessità aromatica.
Negli ultimi anni numerosi studi hanno puntato l‘attenzione sulle molecole volatili, i terpeni, le aldeidi, i chetoni, gli acidi, gli alcoli, per la loro incidenza sull’odore del latte e dei formaggi.
Sembra tutto chiaro ma non lo è affatto. Almeno per me.
Se grasso e proteina svolgono un ruolo importante nella formazione dell’aroma, allora perché, a parità di tecnologia, per esempio il Caciocavallo, che conosco meglio, se io stagiono un formaggio prodotto con latte intensivo ed uno con latte da pascolo (e non è detto che il contenuto di grasso e di proteina di quest’ultimo sia più elevato), alla fine fra i due non c’è storia, quello da stalla dopo un anno resta anonimo come il primo giorno mentre l’evoluzione di quello da pascolo è incredibile?
E soprattutto, da cosa dipende tutto questo? Dalla razza?
Ma dai! Non è questa la sede per una materia che richiederebbe un libro intero però per capirci, noi partiamo dalla ipotesi che le molecole responsabili del gusto siano soprattutto i polifenoli, le molecole non volatili e quelle responsabili dell’odore siano le molecole volatili e che tutte queste dipendano a loro volta dall’alimentazione, dalle erbe e dallo stadio fisiologico dell’erba.
Se così è, abbiamo provato a ragionare, nel corso della degustazione, sul livello e sull’intensità dell’odore e del gusto e sui legami con l’alimentazione.
E per la verità un riscontro lo abbiamo avuto.
I formaggi prodotti con latte intensivo riescono solo a concentrare le poche note odorose e ad aumentare leggermente l’intensità del gusto. Non cambia la variabilità dell’aroma e non cambia la persistenza del gusto.
Se invece abbiamo a che fare con formaggi da pascolo, allora la situazione è completamente diversa.
Abbiamo sempre una concentrazione delle molecole ma la lunghezza del gusto diventa importante e così l’intensità. Non altrettanto si può dire della diversità e di questo ne parliamo nel prossimo paragrafo.
Quindi la stagionatura può dare risultati concreti, attraverso una concentrazione ed esaltazione di note odorose e gustative se la base di partenza, il latte, proviene da sistemi al pascolo o, se da stalla, la razione degli animali è basate su erbe di ottima qualità e su un modesto contenuto di concentrati.
E la lunghezza della stagionatura dipende proprio dalla qualità della razione alimentare. Inutile strafare se il latte di partenza è modesto.
I fermenti. Come ho scritto negli articoli precedenti, la quasi totalità dei formaggi da pascolo a lunga stagionatura ci è sembrata chiusa, potente ma compatta.
Ho fatto di proposito una foto mettendoli insieme perché già il semplice colore ci dà l’impressione che siano tutti uguali. Un paradosso, un ossimoro, nel momento in cui noi sosteniamo che il legame con il territorio è dato dalle erbe dei pascoli, diverse da alpeggio ad alpeggio e da versante a versante.
Invece il colore ed anche l’aroma ci spingono a teorizzare che siano molto simili. Perché?
Secondo me una grande responsabilità ce l’hanno i fermenti. Provo a spiegarmi.
In condizioni naturali, in un qualsiasi caseificio ci sono qualche centinaio di ceppi batterici, ciascuno dei quali libera enzimi che vanno a catalizzare reazioni chimiche diverse.
Naturalmente ogni fermento libera un certo numero di enzimi e sempre quelli, he sono diversi da quelli che liberano altri ceppi.
Quindi, non è la stessa cosa se noi facciamo lo stesso formaggio, nello stesso caseificio, usando perciò fermenti selezionati, che quasi sempre si riducono ad uno solo o a qualche unità, oppure usando il siero innesto.
Quindi, se noi usiamo un solo fermento, come spesso si fa e se lo stesso si usa in altre zone, non possiamo non aspettarci che il formaggio non si apra, non esprima tutte le sue potenzialità e, poi, che sia diverso da altri, che mantenga il legame con il territorio. Se poi ai fermenti aggiungiamo l’effetto riducente dei mangimi, dei concentrati, allora il gioco è fatto.
L’alimentazione. Io parto dall’ipotesi che l’alimentazione sia alla base della qualità del latte, del formaggio e della carne.
Se le erbe o il fieno sono verdi, se le specie floristiche sono molte, il livello qualitativo sarà alto, il più alto possibile. I concentrati hanno l’effetto dell’acqua nel vino: ne aumentano il volume (gli animali fanno più latte), ma se ne diluisce il contenuto.
Allora cosa abbiamo imparato da questa degustazione?
Che il Nord fa buoni fieni e questo lo ritroviamo nel colore dei formaggi, quasi mai bianchi ma sempre tendenti al giallino.
Al Sud il fieno è un supporto dei mangimi e, chiaramente, i formaggi sono rigorosamente bianchi e con l’aroma ai minimi termini.
I mangimi poi, un po’ dappertutto, sembra che siano diventati un male necessario. Il prezzo del latte è basso e dobbiamo aumentare un poco le quantità. Di qui il gusto corto dei formaggi e un odore attenuato.
E alla fine, così come tutti i salmi finiscono in gloria, tutte le analisi economiche finiscono per arrivare al prezzo del latte.
Il prezzo del latte. Il prezzo del latte lo decide il mercato ed è unico per tutti. In pratica non solo non esiste la qualità ma nemmeno il concetto di qualità.
E se il prezzo è unico la qualità sarà la stessa e tutti i formaggi sono simili. E il prezzo è più o meno lo stesso e comunque basso.
Come se ne esce? Andando nella direzione opposta all’attuale, visto che non funziona.
Imitiamo il mondo del vino: lo stesso produttore deve fare formaggi diversi partendo da latti diversi. Nel mondo del vino il produttore, giocando con la tecnica di produzione delle uve, fa vini diversi a prezzi molto diversi anche con uve della stessa pianta.
Un esempio, nel settore caseario, è quello dell’azienda Ca’ Donadel di Magliano Veneto: con vacche alla stalla produce latte normale e con un gruppo al pascolo produce Latte Nobile, a prezzo diverso e superiore.
Se poi con quei latti giochi di fino e lavori a latte crudo, senza fermenti e stagionati in grotta naturale, puoi portare i formaggi a prezzi molto alti.
Se invece misceliamo, pastorizziamo e usiamo i fermenti, allora va bene così, prezzi bassi, formaggi sempre più scadenti e, però, che meraviglia il patrimonio caseario nazionale, un patrimonio che tutti ci invidiano e ci copiano.
Verrebbe da dire: tutte chiacchiere e distintivo!