di Titti Casiello
Trafilata, essiccata, integrale, quando si parla di pasta i suoi aggettivi abbandono. Involucri sempre più stilosi, ricercati (e costosi) sembrano voler generare indiscutibilmente anche la sua qualità. Ma in quei pacchi da 500 grammi, confezionati con fare accurato e casalingo, la parola grano dove è andata a finire?
Con Roberto Rubino, presidente dell’Associazione Nazionale Formaggi sotto il cielo (Anfosc), cinque riflessioni per ricercare il seme perduto, quello del grano.
Trafilatura al bronzo o al teflon?
Festina lente il motto che guidò l’Impero Romano ai suoi fasti. Lo stesso che richiede anche la produzione di una pasta di qualità “trafilando la pasta a basse temperature, e quindi con tempi maggiori, le molecole del grano vengono degradate più delicatamente, subendo quindi minori danni, e in questo modo la loro elevata resta comunque elevata rispetto alla quantità di partenza” dice Rubino.
Ma se un’essiccazione lenta a bassa temperatura è in grado di intaccare il meno possibile le caratteristiche organolettiche e nutrizionali del prodotto, non si tratta, però, secondo Rubino, di un elemento sufficiente a garantirne l’assoluta qualità.
La convinzione insita di aver acquistato un prodotto indiscutibilmente buono proviene solo dalla sensazione che evoca, da quella rassicurazione, anche per il prezzo pagato, che si tratti di un prodotto di oggettiva qualità. “La trafilatura, però, è pur sempre solo una tecnica di produzione, che presa singolarmente non è indice di qualità, è alla materia prima, al grano utilizzato in partenza, che bisogna riferirsi per poterla valutare”.
E se il prezzo di una pasta trafilata al bronzo arriva a sfiorare anche i 10€ al kg, la più comune pasta che ondeggia tra gli scaffali dai 60 centesimi ai 2 euro a confezione “e’ prodotta attraverso una trafilatura in teflon” un materiale, simile alla plastica, che consente la trasformazione nel prodotto finale in tempi molto più ridotti grazie alle alte temperature “il rischio, però, è che il forte impatto termico generi una rottura repentina delle molecole contenute nel grano, diventando così meno biodisponibili e cambiandone anche il valore nutrizionale”.
La trafilata in bronzo sembrerebbe escludere questo rischio, ma Rubino resta comunque in guardia, perché “se il grano di partenza utilizzato per una pasta trafilata al bronzo è di scarsa qualità, allora meglio una pasta al teflon prodotta da un grande grano”.
Integrale o bianca?
Un ragionamento questo che pare iscriversi anche sull’annoso dilemma integrale è meglio che bianco? Se sul “mi piace” nessuno dissente, sul perché sia buono o meno basti sapere che “in un processo di raffinazione si perde una parte delle qualità del grano, quindi di sicuro l’integrale è da considerarsi, sotto questo aspetto migliore perché meno togli, quindi, e più ricco sarà il suo prodotto finale” continua Rubino.
“La molitura come l’alta temperatura priva il grano di molecole, ma anche in questo caso tutto dipende dalla materia di partenza e se questa è scarsa allora nessuno dei due processi può considerarsi migliore o peggiore dell’altro”.
La pasta non cuoce mai
Come si fa allora a ricercare l’origine? La strada proposta da Rubino non è di facile percorrenza e le indicazioni dell’ignoto paiono sempre più fitte. “La maggior parte delle farine utilizzate per la produzione della pasta e del pane sono miscelate. Dai piccoli pastifici sino alle grandi fabbriche la richiesta ai mulini è sempre la stessa: ottenere una miscela di grani che abbiano solo un adeguato grado proteico”.
Ma perché tra tante molecole proprio la proteina? È lei che serve e aiuta i tempi moderni, velocizzando i processi di trasformazione “non a caso la pasta che costa meno è proprio quella che ha un più alto livello di proteina”.
“Un suo alto contenuto aiuta a non far attaccare la pasta e a non farla scuocere, inoltre aumentando le temperature questo rischio si sconfessa ulteriormente, anche se si impiegano semole non eccellenti”.
Secondo Rubino, però, raggiungere il punto di cottura o amalgamarsi perfettamente al condimento non ha nulla a che fare con il gusto “perché fra la proteine e il flavour non esiste alcuna correlazione”.
Tutto allora diventa un po’ uguale a se stesso, tutto un po’ più piatto e al “contentino” di avere una pasta ben cotta il contraltare rischia di essere il piattume anche dei gusti e dei sapori.
“Una pasta trafilata al bronzo prodotta da grani di buona qualità, che equivale a dire coltivati con basse rese, e’ questo è l’inizio per poter parlare di gusto” il presidente dell’Anfosc, ricorda, infatti, come il responsabile principale del gusto in un cibo sia da rinvenirsi nel numero e nel contenuto di polifenoli, di terpeni e di lipidi la cui presenza in misura maggiore o minore dipende dalla nutrizione della piante e, conseguentemente, anche delle resa per ettaro della stessa.
Il grano italiano è di qualità superiore a quello estero
Se così fosse l’assunto dovrebbe essere che tutto il grano italiano è uguale e che tutto questo grano sia allora di qualità. Ma questa tesi, osserva Rubino, si perde in un ragionamento che non regge.
“Se partiamo dall’assunto che la precursora della qualità di un grano sia solo la proteina allora dovremmo anche sapere che i grani stranieri, come quello canadese, hanno in media più proteina di quelli italiani” per ritrovarci poi nello strano paradosso che gongola tra gli scaffali dei supermercati americani rimpinzati, però, di pacchi di pasta italiana.
Ma se in una fetta di pane, come in un singolo spaghetto, sono presenti oltre 500 molecole aromatiche, le cui combinazioni definiscono e influenzano il gusto percepito dal consumatore, come è possibile dare tutta la responsabilità a una, singola e innocua molecola come la proteina?
Alla ricerca (disperata) dei grani antichi
La sacralità, che investe gli attuali tempi moderni, quella cioè di scavare nei meandri di un passato remoto e di idolatrare cibi antichi, ormai dimenticati, a prodotti di assoluta qualità, non fa sconti neanche nel mondo del grano.
E così passando per il mito che quello che oggi non c’è più oggi è indiscutibilmente più buono ecco che un grano dal profumo di un tempo remoto viene erto a indiscutibilmente come migliore.
L’idea che sta dietro questa mitologia è che tutto il processo di industrializzazione ci abbia tolto il senso delle cose genuine, senza darci nulla “ma la qualità del grano dipende unicamente dalla sua coltivazione”.
Non è vero allora che si mangiava meglio quando si stava peggio “e non esiste, poi, alcuna evidenza scientifica che consenta di attribuire ai grani antichi caratteristiche così conclamate da renderli superiori alle varietà moderne”. Si mangia meglio solo se c’è una coltivazione ragionata e una ricerca applicata alla produzione. E in soccorso al ragionamento di Rubino arriva l’immagine di una viticoltura di qualità “una vite centenarie sfruttata con rese alte non darà mai un buon vino solo perché è antica”.
Tutto ritorna allora alle origini e al primo seme “le coltivazioni a basse rese incidono significativamente sul gusto della pasta e del pane, perché è il grano l’unico responsabile del flavour. Con la tecnica possiamo fare solo danni”.