Prendere una toma, vederne il colore impresso che non cede a sbavature, profuma di intenso e un sapore lunghissimo si imprime al palato.
È un’alchimia gastronomica che si realizza solo quando la somma delle parti è in grado di creare qualcosa di più grande.
“Ma ci vuole tempo e pazienza. Io sono del ‘77 di costruzione, ma ogni anno mio vale due perché lavoro 18 ore al giorno” racconta Antonio Lo Quercio titolare del Caseificio Menzapelle a Caselle In Pittari, una ventina di minuti dal vicino mare cilentano di Policastro Bussentino.
È uno di quei luoghi dove tutti si salutano e Nicola Menzapelle e sua moglie Rosa, i suoi genitori, nel paese li conoscono tutti: da ottant’anni su quelle montagne per portare i loro animali al pascolo.
“Per quattrocento anni abbiamo fatto solo questo, coi miei nonni e i miei bisnonni” portando con impegno il proprio territorio tra le righe della qualità dei suoi prodotti “per farlo però non hai tempo per fare altro. La terra e gli animali vanno curati tutti i giorni”.
Un’assenza di un tempo convenzionale che sembra scandire la sua vita da sempre “prima è nato questo lavoro e poi io” e i ricordi arrivano già alla terza elementare “che guardavo 150 capre e 50 pecore”.
Oggi da gestire, Antonio, ha 50 mucche di razza Jersey e 250 capre autoctone cilentane. Con lui in azienda c’è sua moglie Michela e suo fratello Giuseppe, con i loro figli che già danno una mano se c’è né bisogno.
Perché il lavoro è tanto ed è faticoso per tutti “mio fratello sta sempre con gli animali. Le bovine mangiano nel recinto, con le capre, invece, facciamo transumanza”. E tre volte all’anno, a febbraio, a luglio e ad ottobre, Giuseppe è al pascolo con il gregge “adesso sono sul monte Pittari”.
Non esistono né feste né estati e Antonio da quando è nato non ha “mai messo i piedi al mare”, eppure il suo tono di voce continua a farsi allegro “perché se si vogliono fare prodotti buoni bisogna stare attenti all’alimentazione degli animali”.
Da questo sacrificio ne viene fuori quello che lui sa fare meglio, che è il canestrato (tuma), il cacioricotta, il caciocavallo, il caseggio (simile al taleggio) e la ricotta di capra. Si produce tutto nel laboratorio che ha costruito con i suoi risparmi “prima, invece, lavoravamo solo il latte e il sabato vendevamo al mercato del paese”. Oggi invece, spesso, alla cassa c’è sua figlia Rosa. Ed è una punta di orgoglio che si scorge sul suo viso, che dopo i sacrifici di una vita e in assenza di fondi regionali, il suo caseificio sulla strada statale Bussentina 517 è aperto tutti i giorni alla vendita.
Al bancone, però, si trova anche la robiola di capra “che di cilentano ha ben poco, ma piace ai clienti. Ho imparato a farla grazie al professor Rubino” – il presidente dell’Associazione Formaggi Sotto il Cielo (ANFOSC) che con il progetto Nobili Cilentani da anni è impegnato in un dialogo costante con i produttori del territorio.
“Applicare il Metodo Nobile (Me.No.) significa obbligarsi ad ascoltare la natura, a scegliere il momento preciso per avere il meglio, e a volte quel momento ti dice di aspettare” dice Rubino.
Con le parole di Antonio che ne sono la conferma “di questi periodi (giugno) tutti i nostri prodotti sono di colore giallo perché il carotene negli animali è aumentato”. Scamorza, caciocavallo, ma anche la stessa mozzarella si presentano in un colore molto più carico rispetto ai brillanti bianchi ai quali siamo abituati “proprio perché l’erba è fresca ed è ricca di caroteni” Il principale responsabile del trasferimento del colore.
“Questo succede solo da aprile a luglio, man mano che l’erba si secca il colore dei prodotti, invece, inizia a diventare più bianco”.
Riconoscere che il colore, e conseguentemente il gusto, cambi in base alle stagionalità è il primo passo per allontanarsi dalla standardizzazione casearia. Disgregare la convinzione che una mozzarella debba essere sempre bianca, insinuando nelle mente che, invece, la stagionalità e il rispetto della natura non sono monocromatiche. Sono questi i principi portati avanti con il progetto Nobile Cilentano e che diventano risultati in prodotti come quelli di Antonio.
E la sua utopia di fare “cose buone” si spinge e va verso anche la produzione della mozzarella “produciamo tre tipi di mozzarella il fiordilatte, a muzzarella cu a mortedda” – formaggio fresco vaccino a pasta filata realizzato con latte di vacca e conservato in rametti di mirto – “e poi una mozzarella prodotta con la stessa lavorazione della bufala ma con la razza Jersey”.
Il suo latte si avvicina molto a quello della bufala consentendo una produzione molto simile “la faccio solo io in questa zona, perché non c’è molta cultura di questo tipo di mozzarella qui”.
Scommettere su qualcosa di diverso da quanto sempre offerto dal territorio, con tutto il rischio di impresa e la responsabilità che ciò comporta “è il mio modo per non far parte di un processo standardizzato, di diventare pure io un numero o che i miei prodotti possano essere facilmente sostituibili”.
“Ha solo un difetto la mia mozzarella, non usando conservanti va consumata in giornata” continua Antonio – “anche dopo una settimana” ribatte Rubino.
Da poco è partito anche un progetto di riammodernamento del packaging, fortemente voluto dal Direttore del Gal Consorzio Casacastra Carmine Farnetano, con etichette e immagini “che sappiano raccontare il nostro linguaggio gastronomico”