di Titti Casiello
Siamo al sesto posto in Europa, dopo Francia, Regno Unito, Germania, Svizzera e Olanda, per numero di birrifici e al nono per volume di produzione, con diciassette milioni di ettolitri prodotti nel solo 2021. (Report 2022 “Birra artigianale, filiera e mercati” di Unionbirrai).
Ma questi dati sono direttamente proporzionali anche alla qualità?
Chiara, rossa, doppio malto, d’abbazia, artigianale…. quali sono gli assi cartesiani per stabilire da cosa dipenda la loro qualità? Dalla schiuma? Dal colore? Dall’aroma?
Secondo l’Associazione Nazionale Formaggi sotto il cielo (Anfosc) dipende principalmente dalla materia prima.
Se, infatti, acqua, malto d’orzo, luppolo e lievito sono gli ingredienti necessari per una birra, questi non sono, però, sempre uguali e non da tutti, allora, ci si potrà aspettare la produzione di una birra di qualità.
Eppure ciò nonostante la borsa merci tende ad uniformare i prezzi di queste materie prime, e così facendo induce a ritenere che anche la qualità sia uniforme. Ma è proprio così?
Il Metodo Me.No ideato dall’Associazione, amplia allora il suo raggio d’azione direzionandosi ora anche sul mondo brassifero. E dopo latte, pasta, pane, formaggi e carni, la reclame del Metodo “produrre meno per produrre meglio“ è tutta puntata sulla birra.
I numeri della birra in Italia
Attualmente in Italia l’orzo, il cereale base per la produzione brassifera, occupa una superficie coltivata superiore a 350.000 ettari per una produzione di poco inferiore a 1,5 milioni di tonnellate. Di queste, però, solo il 10-15% è destinato all’industria del malto. Eppure il dato che più fa preoccupare riguarda le rese unitarie: cresciute fino a 5-6 tonnellate ad ettaro.
Se a tutto ciò aggiungiamo che per diverse tipologie di birra, come la Blanche o la Saison, è prevista, poi anche l’aggiunta di grano – che ben può arrivare fino al 50% in equilibrio con l’orzo maltato – il dato allora diventa ancor più allarmante.
A un mercato dell’orzo già in sovraproduzione, infatti, non da meno è, poi, quello del grano. Nel solo 2023, si è stimato, che le rese abbiano subito un’oscillazione da 40 a 90 quintali per ettaro.
“Semine troppo fitte impediscono alla coltura di sfruttare al meglio le risorse, con la conseguente realizzazione di prodotti poveri di sostanze e scarsamente qualitativi” – osserva Alfonso del Forno Presidente del Consorzio Metodo Me.No ed esperto degustatore di birre.
La prova
Per lasciare poco spazio alle parole, Anfosc ha deciso di fornire una prova dei fatti. Al birrificio “Serrocroce” di Monteverde, in provincia di Avellino, sono stati così forniti due grani di una stessa famiglia, ma prodotti con rese differenti. Uno la cui resa era di 50 quintali per ettaro e l’altro con una resa, invece, di 20.
Così nella giornata dedicata al Metodo Me.No, venerdì 24 febbraio nella sede di Città della Scienza a Napoli, si è tenuto un confronto alla cieca tra le due birre realizzate con lo stesso metodo di produzione. Significative sono state le differenze in termini di degustazione a vantaggio della seconda. Un olfatto più incisivo con “intense e complesse note di malto e esteri da lievito, in un finale che rimanda a sentori speziati” – come si legge nelle note di degustazione di Del Forno.
“Ma anche il gusto era sensibilmente differente, mentre la prima birra presentava un’apertura dolce e un finale leggermente amaricante, con poca struttura nel suo complesso, la seconda, invece, pur equiparandosi alla prima in un’apertura pacata e morbida chiudeva in un finale di buona freschezza e in un retrogusto lungo che lasciava spazio a note speziate”.
La spiegazione, dalla ricerche condotte da Anfosc, è tutta da rinvenire nei polifenoli contenuti nel grano. Sarebbero, infatti, queste le molecole principali dalle quali dipende la persistenza e l’intensità del gusto, ma anche una maggiore complessità aromatica.
Come fare allora per avere un numero almeno sufficiente di queste molecole nel grano per assicurarsi di bere una birra con gusto? “Produrre meno”.