di Titti Casiello
E il Gal Irpinia Sannio Cisli segna un altro tiro in porta con “NobiLapio”. Un progetto virtuoso sul nobile lavoro svolto dalle api. Perché se esistesse un numero primo in agricoltura quello sarebbe proprio di questi insetti impollinatori, da sempre definiti come operosi che col loro lavoro producono, creano e trasformano, restituendo alla terra nuovi stimoli produttivi.
Protagonisti di NobiLapio sono però, in uno, anche i vigneti situati in Irpinia, a Lapio, uno degli areali più estesi per la produzione del Fiano di Avellino e ricadente in parte anche in quello del Taurasi Docg , all’interno dell’azienda agricola di Angelo Silano.
L’attenzione alla sostenibilità e alla tutela ambientale di questo giovane agronomo si sono collocati da subito come perno centrale nella buona riuscita del progetto. A lui, infatti, il compito, sotto la direzione scientifica dell’associazione Anfosc, di gestire con nuove tecniche di coltivazione i propri vigneti già condotti in regime biologico.
“Sono partito anzitutto da un utilizzo ragionato e limitante, dei trattamenti fitosanitari ed agronomici tra cui propoli e estratti di lieviti” – osserva Silano che dal 2011, dopo essersi specializzato in Veneto e in Francia, ha deciso di gestire i dodici ettari familiari in accordo con le regole della natura.
Si continua, poi, con la semina dei vigneti in autunno “con inerbimenti melliferi, attrattivi per le api ” e nel mentre si controllano le 200 arnie posizionate a ridosso dei filari: “abbiamo insediato le api dell’azienda capofila Mattei anch’essa partner del progetto NobilLapio” e la sinergia è sembrata quasi immediata: “i vigneti si sono ripopolati di insetti impollinatori, i fiori aumentati e al contrario abbiamo notato una diminuzione delle patologie che affliggono acini e vitigni”.
“Le api mellifere, infatti, sono anche in grado di risanare gli acini danneggiati, magari beccati da un uccello o colti dalla malattia dell’oidio. L’ape succhiando il succo zuccherino fuoriuscito sanifica l’acino perché, eliminando il substrato dove si sviluppano i batteri, evita il proliferare di marciume” dice Silano.
Ma queste piccole operaie hanno anche un’altra funzione: “Lo stomaco delle api, così come le loro zampette, trasportano lieviti che finiscono nel polline e anche sugli acini. Ed è partendo da questi lieviti che abbiano deciso di farci un vino”.
La conferma dall’università degli Studi della Basilicata
“Un ruolo importante svolto dalle api in vigneto è quello di fungere da vettori di lieviti. Dati risalenti a diversi anni fa hanno dimostrato che le cellule di lievito non sono in grado di disperdersi da sole, ma sono gli insetti, comprese le api, a fungere da vettori di questi microrganismi” – afferma Angela Capece docente di Microbiologia Agraria all’Università degli Studi della Basilicata. Il gruppo di studi capitanato dalla professore Capace ha condotto prove sperimentali per un biennio ( 2021-2022) sui vigneti dell’azienda Silano e sulle arnie dell’apicoltura Mattei “ abbiamo riscontrato che la permanenza degli apiari nei vigneti per due anni consecutivi ha aumentato la presenza dei lieviti di interesse enologico rispetto alle altre specie. I nostri risultati sembrano, infatti, confermare il ruolo delle api come vettori responsabili della dispersione dei lieviti fermentativi nel vigneto. Inoltre nel secondo anno è stato possibile osservare come questo particolare ceppo di lieviti fosse addirittura presenti nello stomaco delle api stesse”.
Dalle api al lambiccato: il ritorno della tradizione
Con il supporto di Anfosc Silano ha, così, iniziato a fare dei tentativi, selezionando direttamente dal polline alcuni lieviti da utilizzare per la sua cantina. E nel 2021, ha prodotto la prima bottiglia di Lambiccato. “Utilizzare lieviti selezionati standardizza gli aromi del vino, quello che volevo era, invece, restituire un’immagine autentica di un vino del passato ormai dimenticato”.
E dice bene Silano, perché il Lambiccato, tra le nuove esigenze e i gusti del mercato, si era ormai perso nell’oblio della memoria. Solo i vecchi del paese ne avevano un vago ricordo. Era lo spumante delle feste. Di quel vino la cui uva, una volta raccolta, rimaneva dormiente in cantina fino a quando il suo raspo verde non si colorava di marrone. A quel punto si pressava. Ed è da qui che iniziava il cerimoniale della lambiccatura: il mosto veniva filtrato nei “cappucci” (stracci di cotone, detti lambicchi), che goccia dopo goccia purificavano il liquido. Passaggi ripetuti di questa operazione lo depuravano dalle sue sostanze fosfatiche e azotate, assicurandosi al tempo stesso che i lieviti non avessero più nulla da mangiare e in questo modo evitando che qualsiasi fermentazione potesse partire.
L’uso massiccio di lieviti selezionati nell’enologia moderna ha fatto, però, perdere qualsiasi traccia di questo vino “hanno un alto potere alcoligeno, con quella capacità di produrre alcol in presenza di zucchero, a differenza dei lieviti indigeni che in presenza di un certo quantitativo di alcol nel mosto tendono, invece, a morire; quindi utilizzando i primi le bottiglie di Lambiccato tendevano tutte ad esplodere, proprio perché l’azione dei lieviti, non arrestandosi mai al suo interno, tendeva a raggiungere livelli di pressione eccessivi”. Era diventata impossibile la sua produzione vista anche l’assenza totale di lieviti naturali in vigna. “Con il progetto NobiLapio e il ritorno delle api nei vigneti siamo stati in grado di riportarli e con essi a produrre nuovamente il nostro Lambiccato”.
La nascita di un Disciplinare di produzione secondo il “Metodo Nobile”
Riportare questo vino in auge è come riportare nuova memoria culturale ad un territorio. Ed è per questo che si mira alla realizzazione di un vero e proprio Disciplinare di produzione che riscriva le regole della viticoltura partendo da pratiche ragionate in vigna. “Si tratta del cosiddetto “Metodo Nobile”1 messo in atto dal Dott. Rubino. Applicarlo in vigna significa creare un valore aggiunto alle produzioni aziendali e alla riproduzione di un prodotto tradizionale come il Lambiccato”.