Francesco Tiezzi, Università di Firenze
Si sente molto parlare di New Breeding Techniques (NBT), ovvero di nuove tecniche di miglioramento genetico, in quanto potrebbero aiutarci a selezionare varietà vegetali e razze animali più produttive, efficienti e resilienti, soprattutto davanti agli scenari di cambiamento climatico che si prospettano.
Ma cosa sono e, soprattutto, come si contraddistinguono rispetto a quelle non-nuove?
Andiamo per gradi, per capire come il miglioramento genetico di piante e animali abbia funzionato, al 99%, fino ad oggi. Voglio premettere che io mi occupo per lavoro di miglioramento genetico, facendo ricerca, consulenza e didattica in questo ambito. Ma mi limito ad applicare “vecchie” tecnologie, ovvero quelle che non implichino l’uso di ingegneria genetica.
In principio, c’erano l’Uro, il Muflone Asiatico, il Cinghiale e il galletto della giungla dello Sri Lanka. Poi, questi sono stati ‘addomesticati’ e oggi alleviamo i loro discendenti: i bovini, gli ovini, i suini ed i polli. Sto semplificando, lo so…
Ci sono voluti millenni per andare dall’Uro alla Bruna Alpina, dal Muflone Asiatico alla Pecora Appenninica, dal Cinghiale alla Cinta Senese, dal galletto selvatico al pollo dell’aia (intesa come resede dell’azienda agricola). Intanto, il processo di addomesticamento ha comportato una certa selezione: gli animali che si avvicinavano agli umani erano verosimilmente i più “coraggiosi”, i primi allevatori hanno poi scelto i più calmi e mansueti. Tutti questi caratteri sono, direttamente o indirettamente, sotto controllo genetico. Quindi, si faceva selezione genetica.
Si potrebbe pensare che tali processi appartengano alla preistoria, ma in realtà tale processo sta avvenendo anche oggi. Per esempio, con tutti i cinghiali che si aggirano per le città: quei cinghiali metropolitani non sono un campione casuale della popolazione, ma sono quelli che sono più addomesticabili e infatti si addentrano nei luoghi più antropizzati.
Continuiamo a fargli trovare da mangiare nelle città, e a breve ci sarà una nuova razza suina per ogni città metropolitana!
Grazie alla nascita degli allevamenti intensivi, i grandi numeri per allevamento, l’inseminazione artificiale, i nuovi metodi di predizione statistica e, soprattutto, tanti computer, in 80 anni siamo passati dalle razze ‘autoctone’ a quelle ‘migliorate’, da 10 a 40 kg di latte al giorno per vacca, da 200 gr a 1000 gr di accrescimento giornaliero dei suini. In poche parole, l’innovazione tecnologica ci ha aiutato a scegliere meglio i migliori riproduttori. Ciò è stato aiutato ulteriormente dalle tecnologie di genetica molecolare che abbiano reso più economica la conoscenza delle varianti geniche degli individui, prima con la selezione assistita dai marcatori molecolari e poi con la selezione genomica. Per farla semplice, si riesce a sapere quanto latte faranno le figlie di un toro prima ancora che questo nasca. Un bel risparmio di tempo!
Però i genetisti animali e vegetali hanno sempre avuto a che fare con un limite biologico: la variabilità genetica.
Tale parametro dice quanto varino gli animali a livello genetico, ovvero quanta variabilità sia contenuta in una popolazione, come somma di tutte le possibili varianti geniche portate da tutti gli individui. Tali varianti geniche portano a una variabilità che si osserva in molti caratteri: e così le vacche producono giornalmente da 10 kg in meno a 10 in più della media della popolazione, i suini crescono per giorno da 200 gr in più a 200gr in meno rispetto alla media della popolazione. Però, nessun suino può crescere 1000 gr in più rispetto alla media popolazione, nessun suino riesce ad assorbire tutto il fosforo nella razione e nessuna pianta è resistente al Gliphosate, un erbicida che uccide ogni pianta. Tale limite produttivo era imposto da un limite fisico che stava sul genoma: se una certa variante genica non c’è, non può essere espressa. C’è poco da fare. Ora, nuove varianti geniche vengono create continuamente grazie alle mutazioni, ma è un processo lento e poco efficiente. Non è detto che la nuova variante sia utile.
E allora come si fa ad avere la nuova variante, magari utile?
Ci si mette.
Inizialmente si sono prodotti degli organismi “mutagenici”. Si prendevano degli individui e si irradiavano in modo da far aumentare il numero di mutazioni per generazione. Alcune mutazioni potevano risultare irrilevanti, altre dannose, altre vantaggiose. Si selezionavano gli individui che portassero quelle vantaggiose e si andava avanti, con la variabilità genetica di molto ampliata grazie alle nuove mutazioni. Ma era un processo un po’ aleatorio, bisognava comunque aspettare la mutazione vantaggiosa, benché fosse molto velocizzato rispetto alla selezione tradizionale.
Le prime tecniche di ingegneria genetica vera e propria sono state quelle che hanno permesso di prendere un gene ed inserirlo in una popolazione (o specie) dove quel gene non comparisse. Ad esempio, il gene della resistenza al Gliphosate è stato inserito nella soia. L’organismo “transgenico” presentava della variabilità genetica mai osservata prima, tanto da generare un carattere anch’esso inosservato: la resistenza ad un erbicida totale.
Lo sviluppo tecnologico ha permesso di migliorarne l’efficienza e la precisione notevolmente. La tecnica CRISPR-Cas9, in particolare, ha migliorato di molto l’efficienza permettendo ora di prendere un gene da una popolazione di una specie e inserirla in un’altra popolazione, della stessa specie, con relativa facilità. Per esempio, il gene che determina l’assenza di corna nei bovini (carattere ‘polled’) viene preso dalla popolazione Angus e inserito in quella Holstein, evitando generazioni e generazioni di incrocio e selezione. Gli individui Holstein che ne derivano sono quindi acorni, con notevoli vantaggi in termini di benessere animale e di gestione dell’allevamento. Ciò ha anche aumentato la variabilità di quel gene nella razza Holstein: dall’avere tutti gli individui con le corna, ora se ne possono avere con e senza, corna. Tali individui saranno “cis-genici”, perché il gene è stato importato da individui delle stessa specie, e non verranno verosimilmente classificati come organismi “trans-genici” o “geneticamente modificati”. In effetti, quel gene sarebbe potuti passare da una razza all’altra semplicemente grazie all’incrocio. L’ingegneria genetica ha solamente accorciato i tempi ed aumentato la variabilità genetica, prescindendo da quel vincolo biologico che tanto attanagliava i genetisti.
Quindi, l’ingegneria genetica è arrivata ad un punto da garantire precisione e affidabilità d’uso tali da facilitare di molto il miglioramento genetico.
Tralasciando quali caratteri vengano scelti per essere portati da una popolazione all’altra, quello che merita attenzione è il come tali caratteri vengano scelti.
L’ingegneria genetica è efficiente a lavorare su caratteri che siano determinati da uno o due geni. Ma molti caratteri sono determinati da decine o centinaia di geni, molti dei quali anche difficili da identificare. Tali caratteri includono la robustezza generale dell’individuo e la sua capacità di adattamento, per esempio. Per non parlare della qualità dei prodotti, per la quale non siano neanche sicuri sia influenzata da alcun gene.
E quindi, applicheremo le tecniche di ingegneria genetica solamente per selezionare i caratteri “facili” e ci scorderemo, ancora una volta, di tutti gli altri?