Per chi, come me, è nato e vive al Sud, il Parmigiano Reggiano, e più in generale i Grana, sono formaggi al tempo stesso ignoti ma che conosciamo da sempre. A partire dal dopoguerra, qualsiasi ristorante o casa aveva un pezzo di formaggio grana, che però veniva usato da grattugia.
Pochi, pochissimi credo che abbiano gustato e gustino uno dei due grana in commercio. Personalmente, conosco poco il Parmigiano Reggiano, sia perché non mi attirano i formaggi di quei sistemi di allevamento che permettono un livello di concentrati fino al 50% della razione e sia perché quelli che troviamo al Sud sono tutti uguali e dello stesso livello qualitativo.
Però allo stesso tempo trovavo incomprensibile che in un’area così vasta si producesse un formaggio di un solo livello qualitativo.
Ne parlavo spesso con Carlo Fiori (Guffanti Formaggi), fino a che un giorno mi chiama e mi dice che, forse, ha qualcosa da farmi degustare. Accetto volentieri e mi arriva a casa una confezione con sette Parmigiani, naturalmente anonimi. Ci tenevo anche a fare questa degustazione perché volevo capire fino a che punto la tecnica di degustazione che ho elaborato mi permettesse di “leggere”, di cogliere la complessità di questo formaggio, tanto da me sconosciuto, quanto apprezzato in tutto il mondo. Con Carlo e Andrea abbiamo iniziato la degustazione.
Come ormai d’abitudine, la prima cosa che faccio è quella di mettere in ordine i formaggi per colore e tonalità crescente. Nei formaggi di vacca e di pecora funziona benissimo, in quelli di capra e bufala, notoriamente bianchi anche se con tonalità diverse, funzionerà quando avremo, avrò, meglio affinato la mia esperienza su tipologie “didattiche”.
Perché funziona? Perché il colore, nei formaggi e non solo, è strettamente legato ai carotenoidi e, in parte, ai polifenoli. E i carotenoidi sono strettamente correlati ai cloroplasti delle erbe. Quindi, più erba mangia l’animale, più aumenta il contenuto di carotenoidi, più il formaggio sarà giallo. Ma, con le erbe, passano nel latte anche le sostanze volatili: aldeidi, chetoni, alcoli, terpeni e anche grassi insaturi che andranno anch’essi ad aumentare la componente volatile. Quindi, più il formaggio sarà giallo o avrà tonalità alte e più avrà un aroma interessante. E il gusto? Il gusto no, perché è legato a molecole fisse, più pesanti; fra le tante, secondo me, un ruolo importante hanno i polifenoli. Ora mentre i composti volatili diminuiscono a mano a mano che l’erba cresce, quelli fissi hanno un comportamento opposto. Quindi all’inizio del pascolamento il formaggio o il burro saranno molto gialli, con un aroma intenso ma un gusto debole e poco persistente. Viceversa, quando il pascolo è quasi secco.
Torniamo al Parmigiano Reggiano. Nel colore c’è un elemento di disturbo che è quella tonalità caffè, avana scuro, non saprei ben definirla, tonalità che finisce per monopolizzare eventuali influenze di altri composti coloranti.
Mi sbaglierò, ma un ruolo importante potrebbe averlo l’erba medica.
Per fortuna avevamo uno, anzi due campioni che ci hanno permesso di cogliere appieno il ruolo di questa tonalità. In effetti, come si può vedere dalle foto (anche se perfette non sono) il campione 4 e 5 (a partire da destra) non solo hanno colore, giallo più o meno intenso, ma fuoriescono dalla mono tonalità del caffè.
Dopo il colore abbiamo degustato prima l’odore di tutti e poi il gusto, proprio per vedere le varie relazioni che ci possono essere fra alimentazione degli animali e parametri di degustazione.
E anche in questo caso l’ordinamento per tonalità ci ha permesso di cogliere il livello qualitativo dei formaggi. I primi tre erano i formaggi classici: aroma debole e univoco. Il n. 4 è stata la sorpresa: il colore era di un giallo carico, l’odore intenso, ma variegato, con una piacevole acidità. Anche il successivo aveva, oltre al colore gallino, un odore intenso, anche se meno ampio. Gli ultimi due, che erano più stagionati, hanno presentato un odore intenso ma chiuso, quasi classico del Parmigiano.
Siamo poi passati al gusto.
A questo parametro si dà poca importanza, anche in campo scientifico, eppure forse, fra i tre, è quello che più ci permette di capire, non solo lo stato dell’erba e la qualità dei fieni, ma anche la quantità di concentrati che gli animali hanno ricevuto.
E allora, nei primi tre, nessuna sorpresa, anche il gusto era corto, poco intenso e chiuso. Stereotipo del Parmigiano. Il terzo, addirittura era troppo vecchio, si sentiva l’evoluzione dei grassi, ed era “solo” del 2018. Molto interessante è stato il confronto fra il quarto e il quinto. Il quarto aveva un gusto intenso e lungo, variabile e avvolgente. Il quinto non era altrettanto lungo e anche meno variabile.
Quindi, l’ipotesi fatta è che gli animali, nel primo, hanno avuto una razione ben bilanciata fra componente verde, erba fresca e fieni ben fatti e tagliati al punto giusto, nel secondo caso invece la razione era basata su erbe troppo precoci e fieni tagliati troppo presto, e questo determina un contenuto più basso di polifenoli; e comunque, il livello dei concentrati non poteva essere del 50% ma molto meno.
Carlo, che conosce le aziende, ha confermato questa ipotesi. Gli ultimi due, come si vedeva dal colore, hanno avuto un gusto intenso, persistenza discreta, ma chiuso e troppo univoco. Segno che fossero troppo vecchi. Infatti, il sesto era del 2016 e il settimo del 2012.
Come ho scritto nel mio blog, noi degustiamo per imparare. Ieri ho, abbiamo imparato che il colore è un perfetto biglietto da visita dell’odore; che i tre parametri, colore, odore e gusto ci possono permettere di risalire all’alimentazione degli animali e, quindi, ai composti che intervengono e al livello qualitativo del prodotto. Ma ho imparato anche che un altro Parmigiano esiste, un formaggio esaltante e con una personalità spiccata. Mi chiedo e chiedo ai produttori: ma perché non imitate il Comté per il quale esistono due marchi e due livelli qualitativi, con due prezzi diversi? Così il consumatore potrà scegliere. Infine. Perché non proviamo a capire quale possa essere l’età migliore perché degustare un Parmigiano Reggiano?
Le vecchiaia non sempre o quasi mai fa bene a tutti.